Ho sempre sentito il bisogno di concretizzare quella strana, e per certi versi troppa, sensibilità con la quale convivo fin da bambino. Quel modo particolare di vedere le cose che mi portava ad approfondire il rapporto che avevo con il mondo circostante, che mi permetteva di “sentire” le persone con cui venivo in contatto, e che mi costringeva a tenere la porta spalancata alle emozioni, impedendomi spesso di trattenere le lacrime anche per quelle apparentemente insignificanti. Intorno all’età di 12 anni, grazie alla cinepresa super 8 di mio padre, ebbi per la prima volta la sensazione di riuscire davvero a esternare quello che avevo dentro. Credo sia stato quello il periodo della mia vita in cui sono rimasto affascinato dalle immagini in movimento.
Eh già, le vecchie super8. Erano pellicole che permettevano di fare soltanto 5 minuti di girato e costavano un occhio della testa.
Io ero diventato la disperazione di mio padre.
Spesso, durante le feste in famiglia che lui voleva filmare per averne un ricordo, approfittando del momento in cui si sedeva per mangiare la torta, gli rubavo la cinepresa e riprendevo di nascosto. Ma lungi da me l’idea di riprendere in maniera tradizionale i parenti che festeggiavano. No, io preferivo sperimentare inquadrature e punti di vista “diversi” che avevo ben stampati in mente ma che, per mancanza di esperienza, non uscivano mai come li avevo pensati.
E così, quando mio padre portava a sviluppare il “filmino” (si chiamavano così all’epoca, non esisteva il concetto di “video” ) trovava all’interno del suo “ricordo di famiglia” diversi secondi di immagini a lui incomprensibili: il pelo del gatto ripreso da molto vicino, e ovviamente fuori fuoco, il filo incandescente di una lampadina accesa, decisamente sovraesposto, l’acqua che usciva dal rubinetto al rallentatore. Insomma, esperimenti.
Nient’altro che esperimenti.
Un bel giorno, forse preso dallo sconforto, decise di regalarmi una pellicola tutta per me. A condizione che io non “sabotassi” più le sue.